“MADE IN”

Per stabilire quali sono le condizioni per poter riportare sui prodotti da commercializzare in Italia o all’estero la dicitura del  “made in Italy”, occorre fare una doverosa premessa sul contesto giuridico attuale:l’argomento infatti è in continua evoluzione

Molti Paesi hanno siglato l'Accordo di Madrid, il quale prevede l’obbligo di “indicazione precisa ed in caratteri evidenti del paese o del luogo di fabbricazione o di produzione, o un’altra indicazione sufficiente ad evitare ogni errore sull’origine effettiva, sotto pena del sequestro del prodotto”.

Nel nostro ordinamento, tale obbligo è stato interpretato come possibilità di vendere un prodotto importato apponendovi il solo marchio dell’importatore. Solo laddove - oltre all’apposizione del marchio - risultino indicazioni potenzialmente fallaci (indirizzi, numeri di telefono, riferimenti a siti web, etc.) occorrerà verificare la sussistenza dei presupposti per la configurazione delle condotte illecite richiamate dall’Accordo di Madrid.

Il Decreto attuativo dell’Accordo di Madrid,  DPR n. 656/1968, all’art.1, prevede che le merci sospettate di recare una falsa o fallace indicazione di provenienza sono soggette a fermo amministrativo all’atto della loro introduzione in Italia, a cura dei competenti uffici doganali che ne danno immediatamente notizia all’autorità giudiziaria.

Allo stato attuale nella disciplina di fonte comunitaria non esiste un espresso obbligo di etichettatura di origine del prodotto. Ciò che risulta severamente vietato è mentire sull’origine, mentre non pare necessario indicare la provenienza estera della merce.

A livello comunitario giace - sin dal 2005 - una proposta di regolamento che avrebbe l’ambizioso obiettivo di uniformare la disciplina sull’etichettatura di origine nei 27 Paesi membri. Si ricorda che il Parlamento europeo, in seduta plenaria, ha approvato nell’ottobre 2010 a larga maggioranza il testo del regolamento che si trova ora al vaglio della Commissione. Va, tuttavia, rilevato che permangono contrasti all’interno degli Stati membri fra i due schieramenti rappresentati, da un lato, dai Paesi dell’area meridionale (tra i quali l’Italia) favorevoli all’adozione e, dall'altra, dai Paesi del Nord contrari a restrizioni sull’etichettatura. Non risultano, dunque, possibili previsioni sull’approvazione o, comunque, sulle tempistiche di varo della normativa in oggetto.

In ambito europeo è altresì opportuno richiamare la definizione di “origine dei prodotti”. Il Codice Doganale Comunitario - adottato con Regolamento n. 450/2008 - stabilisce che nel caso in cui alla produzione della merce abbiano contribuito due o più Paesi, la merce si considera originaria del Paese dove è avvenuta l’ultima trasformazione/lavorazione sostanziale in presenza delle seguenti condizioni cumulative:

  • Che la lavorazione/trasformazione  sia sostanziale;
  • che sia economicamente giustificata;
  • che sia effettuata da un’impresa attrezzata a tale scopo;
  • che si sia conclusa con la      fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase      importante del processo di fabbricazione.

Il concetto di trasformazione sostanziale non è di immediata intuizione: in alcuni settori, ad esempio quello tessile, è intervenuta la Commissione Europea con alcune specificazioni (l’art. 38 del Regolamento CEE 2454/1993 stabilisce una serie di lavorazioni considerate insufficienti a conferire il carattere originario).
Gli allegati alle disposizioni di applicazione del Codice doganale comunitario prevedono il tipo di lavorazione a cui deve essere sottoposto il prodotto ai fini dell’ottenimento dell’origine “normale” (non preferenziale) e la conseguente attribuzione del “Made in”. Gli allegati di riferimento sono:
- il numero 10 per le materie tessili e i loro manufatti
- il numero 11 per i prodotti diversi dalle materie tessili e loro manufatti.

Sul piano nazionale l’art. 31 bis del D.L. 273/2005 (convertito nella L. 51/2006) ha sospeso l’applicazione dell’art. 6, lettera c), del Codice del Consumo (D. Lgs. 206/2005), secondo cui i prodotti o le confezioni di prodotti destinati al consumatore devono riportare chiaramente visibili e leggibili, tra le altre indicazioni, anche quella relativa al Paese di origine, se situato al di fuori dell’Unione Europea. Il decreto di attuazione dell’art. 6, lettera c), del Codice del Consumo, infatti, non è ancora stato emanato, con la conseguenza che l’efficacia di detta disposizione è momentaneamente sospesa.

Il legislatore è intervenuto sulla spinosa questione della tutela del “Made in” e del consumatore, abrogando il controverso art. 17 della L. 99/2009, che prevedeva l’indicazione in ogni caso della provenienza estera del prodotto

La recente L. 166/2009, in particolare, ha stabilito che l’importazione e l’esportazione - o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione - di prodotti recanti falsi o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’art. 517 del codice penale in forza del quale “chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a ventimila euro”, oltre al fatto che la merce su cui è illegittimamente apposta la dicitura “Made in Italy” verrà sottoposta a sequestro e saranno comminate le relative sanzioni amministrative.

La L. 166/2009 ha stabilito inoltre che l’importatore/produttore potrà, all’atto dell’importazione di prodotti da Paesi extra U.E., non specificare il luogo di origine del prodotto e presentare all’autorità doganale un’attestazione con cui si impegna a regolarizzare la merce al momento della commercializzazione, con le precise informazioni per il consumatore, salvo verificare che il prodotto importato non faccia parte di una categoria per cui sia obbligatoriamente prevista l’indicazione del luogo di origine (per esempio i prodotti alimentari, come stabilito dalla recente L. 4/2011,l’abbigliamento, come previsto dalla L. 55/2010 la cui efficacia è stata, tuttavia, sospesa “di fatto” dalla circolare dell’Agenzia delle Dogane n. 119919/RU,i giocattoli in virtù del D.Lgs. 313/1991).

Si riportano qui di seguito le diciture indicate nella Circolare esplicativa del Ministero dello Sviluppo Economico prot. n.124898 del 09/11/2009, che possono essere apposte al prodotto importato in fase di commercializzazione:

  • Prodotto fabbricato in...;
  • Prodotto fabbricato in Paesi extra Ue;
  • Prodotto di provenienza extra Ue;
  • Prodotto importato da Paesi extra Ue;
  • Prodotto non fabbricato in Italia.

 

Oltre alle predette diciture continua ad  avere rilevanza anche la dicitura “importato da: [nome e sede dell’impresa]”.

 

Nel corso degli anni si è, pertanto, venuto a creare un ampio contenzioso in ragione della divergenza tra l’interpretazione che viene effettuata della legge, da un lato, e la prassi rigorosa seguita dalle Autorità doganali dall’altra.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione penale sì è consolidata (si veda, da ultimo e tra le varie, Cass. Penale 15374/2010) nel confermare che - per origine della merce - non debba intendersi il luogo di fabbricazione totale (o parziale) della merce, ma la provenienza da un determinato produttore che se ne assume la responsabilità sotto i vari profili, in particolare quello della qualità. La Corte sostiene, infatti, che l’induzione in inganno prevista dall’art. 517 c.p. riguarda l’origine, la provenienza o la qualità del prodotto. L’origine e la provenienza sono funzionali alla qualità, che in realtà è l’unico elemento fondamentale, posto che il luogo o lo stabilimento in cui il prodotto è confezionato è indifferente alla qualità del prodotto stesso.

La nuova normativa sull’etichettatura, contenuta nella L. 55/2010, interessa esclusivamente il settore tessile, calzaturiero, della pelletteria, nonché i prodotti conciari e i divani e prevede un sistema di etichettatura obbligatoria recante evidenza del luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione. Tale legge prevede che la dicitura “Made in Italy” sia possibile solo su prodotti finiti per i quali almeno due delle fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e per i quali sia verificabile la tracciabilità delle rimanenti fasi.

L’art. 1 della L. 55/2010 individua quindi, per ciascun settore, le fasi di lavorazione

  • settore tessile: la filatura, la tessitura, la nobilitazione e la confezione compiute in Italia anche utilizzando fibre di importazione;
  • settore della pelletteria: la concia, il taglio, la preparazione l’assemblaggio e la rifinizione avvenuti nel territorio nazionale anche con l’utilizzo di pellame grezzo di importazione;
  • settore calzaturiero: la concia, la lavorazione della tomaia, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano utilizzando anche pellame grezzo di importazione;
  • settore conciario: riviera, concia, riconcia, tintura, ingrasso – rifinizione;
  • settore divani: la concia, la lavorazione del poliuretano, l’assemblaggio di fusti, il taglio della pelle e del tessuto, l’assemblaggio e la rifinizione sempre compiuti nel territorio nazionale anche utilizzando pellame grezzo di importazione.

Per non incorrere nel reato di cui all’art.517 c.p.,la dicitura “Made in Italy” può essere apposta su un prodotto solo e soltanto quando il prodotto è stato interamente ottenuto in Italia o quando ha subito in Italia una fase di lavorazione sostanziale.